Stalingrado. La stazione e il Sei barra uno

Nel racconto della guerra due episodi in particolare emergono in ciascuna delle due parti del grande racconto, l’uno doppio dell’altro: la stazione e il Sei barra uno. Quello della stazione nel primo dei due romanzi della dilogia, Stalingrado, e quello del Sei barra uno narrato nel secondo romanzo, Vita e destino.

Stalingrado. La stazione e il Sei Barra Uno

Dal saggio di Ferdinanda Cremascoli, Stalingrado, il polittico di Vasilij Grossman, Biblioteca di ItalianaContemporanea, edizione digitale, maggio 2020


Il primo episodio della guerra in città è quello della stazione, narrato in Stalingrado in ben dodici eccezionali capitoli (St, III, 36-47). Si tratta di uno dei fatti storici più drammatici della guerra tra le rovine della città su cui il romanzo innesta le gesta dei suoi personaggi, immaginando che alla stazione combattano gli uomini di Filiaškin tra cui insieme a molti altri si trovano Kovaliov, il giovane amico di Tolja, e Vavilov il kolchoziano, il contadino che apre il romanzo, subito dopo i fatti della “Grande Storia”: l’incontro di Salisburgo tra Hitler e Mussolini dell’aprile 1942 porta Vavilov a morire a Stalingrado.

Il fatto che traspare in controluce è quello della Stazione Stalingrad-1. L’episodio, narrato nelle sue memorie da Čujkov, si svolse il 19-20-21 settembre quando i tedeschi occuparono la stazione ferroviaria, difesa dai resti del I battaglione del XLII reggimento del colonnello Elin, appartenente alla XIII Divisione della Guardia. L’attacco fu condotto con gli aerei e l’artiglieria e decimò i difensori che tuttavia combatterono senza ripiegare. Quando infine i tedeschi occuparono la stazione, i superstiti si asserragliarono in un edificio adiacente e alla fine sopravvissero in sei: finite le munizioni, riuscirono a raggiungere il Volga e su una zattera si lasciarono trasportare dalla corrente finché furono raccolti da una batteria contraerea. 

Il secondo episodio della guerriglia cittadina è quello del civico Sei barra uno, narrato in Vita e destino in più luoghi del racconto, nella prima e nella seconda parte del romanzo (VD, I, 58-61; VD, II, 17-21). Anche questo episodio lascia intravedere in trasparenza una vicenda storica, quella della “casa di Pavlov”, ma non solo: il Sei barra uno si trova vicino alla fabbrica Trattori ed è raso al suolo nell’attacco tedesco, che storicamente data al 14 ottobre. Il Sei barra uno rappresenta così, come la stazione, tutti i luoghi della città, edifici pubblici, case, vie, piazze in cui si combatté accanitamente per ogni piano, per ogni stanza, per ogni metro.

L’identità degli uomini che combatterono alla stazione è ignorata dalla storia, parimenti è ignorata l’identità dei molti che si opposero ai tedeschi in ogni casa. Ma il romanzo li conosce tutti e restituisce loro identità, attraverso i suoi personaggi. Sono un comune campione di umanità, ognuno col suo carattere non necessariamente ricco di virtù, anzi. Tra gli uomini della stazione ci sono anche dei “disciplinari”, detenuti per reati comuni arruolati con la promessa di cancellazione delle loro pene. Tra gli uomini del Sei barra uno c’è un individuo come Klimov, che uccide e saccheggia, senza esitazione e senza ripensamenti. Una volta si è ubriacato di grappa tedesca e ha fatto paura anche al suo capo, Grekov, che notoriamente non ha paura di nessuno. 

Sono queste persone ordinarie che hanno compiuto imprese straordinarie.

Un tema comune tra l’episodio della stazione e quello del Sei barra uno è quello del rapporto coi superiori, difficile in entrambi i casi. 

Al Sei barra uno hanno fama di essere piuttosto “strani”. Soškin, che è un commissario militare e li ha raggiunti per portar loro rifornimenti, fa al maggiore Berëzkin un rapporto sul comandante del gruppo che si è raccolto al civico Sei barra uno, un certo Grekov, capitano di fanteria, essendo venuti a mancare gli ufficiali superiori. Soškin è scandalizzato perché Grekov non gli ha firmato la ricevuta del materiale. Berëzkin commenta che evidentemente, dato che tengono testa ai tedeschi molto bene, hanno altro da fare e che un po’ di iniziativa autonoma è un bene. Ma Soškin mette a verbale quello che ha visto e invia tutto ai suoi superiori che prendono la cosa molto sul serio. La faccenda arriva al Soviet militare e al capo della sezione politica. Per loro il primo e più urgente problema è rimettere in riga Grekov (VD, I, 58-61). L’artigliere comunista Čencov informa il partito del fatto che Grekov mette strane idee in testa ai soldati, fa discorsi antisovietici contro i kolchoz, ad esempio; si definisce “capocasa” e si fa chiamare Vanja … più che un distaccamento militare, commenta qualcuno, sembra la Comune di Parigi. Il partito decide perciò di mandar loro il commissario del reggimento fucilieri Pivovarov, ma questi, a causa della polmonite di Berëzkin, non può muoversi. Ecco allora che mandano Krymov (VD, II, 19). E Krymov, che lì si deve misurare con tutte le sue contraddizioni, scrive il suo rapporto contro Grekov (VD, II, 37). La vicenda poi si risolve da sé: Grekov e i suoi muoiono sotto le bombe tedesche; della loro vicenda si impadronisce il partito, che sta erigendo la leggenda monumentale della guerra,  per la quale questi uomini diventano eroi della “Grande Guerra Patriottica” (VD, III, 43). 

Anche il gruppo della stazione sviluppa difficili rapporti con i superiori. Il battaglione è cosciente di essere isolato e vorrebbe avere dal comando il permesso di ritornare indietro. Ma l’ordine di Stalin “Nessun passo indietro” è interpretato alla lettera dai superiori.

Anche gli uomini del Sei barra uno sono lasciati al loro posto. È il maggiore Berëzkin a decidere di non ritirare gli uomini, ma per una ragione ponderata: al Sei barra uno ci sono le vedette che possono dare informazioni preziose all’artiglieria d’Oltrevolga, indirizzandone con precisione ed efficacia i tiri; al Sei barra uno ci sono anche uomini del genio che possono rendere più difficile l’avanzata del nemico, costringendolo a percorsi minati; inoltre proprio la resistenza in quella casa ritarda l’attacco alla fabbrica Trattori, che ormai si profila con certezza; e infine il Sei barra uno non è isolato dal comando, perché è gli uomini assediati hanno scavato un tunnel che riesce a mantenerli in contatto.

Invece il gruppo della stazione è completamente tagliato fuori. Filiaškin prende in considerazione l’idea di ritirarsi e, prima che ogni collegamento telefonico si interrompa per sempre, ne fa parola col suo superiore il colonnello Elin, uno degli ufficiali storicamente impegnati nella battaglia di Stalingrado. Questi a sua volta chiama il suo superiore, Rodimcev, che ordina la resistenza più accanita; Rodimcev a sua volta interpella il suo superiore Čujkov, che ordina di non indietreggiare, e questi chiama il comandante supremo, Erëmenko, che conferma il divieto di ritirarsi.

È il momento più critico in città: le difese sovietiche sulla riva destra hanno le spalle al Volga, occupano un lembo di terreno lungo il fiume che si riduce ogni giorno di più. In città sono presenti sulla riva sinistra nel villaggio di Yamy Erëmenko, sulla riva destra, appena arrivati, Čujkov e Rodimcev. I tre sanno che l’ordine del Comando supremo è di non arretrare e che Stalingrado deve essere tenuta ad ogni costo. Sanno che devono ubbidire, pena la corte marziale, ma sanno anche che ogni ritirata è divenuta comunque impossibile.

C’è una certa grandezza in questi tre alti ufficiali che non sono dominati solo dal timore della corte marziale, ma sono anche in sintonia con il sentimento popolare, che dopo una anno di ritirate sente di essere ad un limite estremo, oltre il quale non si può andare. Ma c’è anche chi ha semplicemente paura come il colonnello Elin. Il suo timore è che il battaglione di Filiaškin non si allinei agli ordini rigidissimi che vietano ogni ulteriore ritirata, anzi poiché questi uomini sono da poco stati incorporati al suo reggimento, cerca di distinguere le sue responsabilità dalle loro. La sua preoccupazione è di non essere accusato di trasgredire l’ordine che vieta ogni passo indietro. Ma quando tutti saranno morti, il colonnello Elin nel suo rapporto a Rodimcev si approprierà della gloria degli uomini della stazione, «il mio battaglione», dirà degli uomini di cui ha dubitato fino alla fine. 

Tuttavia al centro del racconto ci sono gli uomini di Filiaškin. Quando ogni comunicazione vien meno per sempre, prendono una decisione autonoma: non possono ritirarsi, non perché glielo vietino gli ordini, ma perché non è più possibile.  Si rendono conto di essere esposti all’attacco tedesco senza via di scampo, ma sono determinati a vivere. Cadono intorno bombe, razzi, proiettili di ogni tipo. L’artiglieria nemica colpisce duramente.

L’esperienza dimostra, commenta il narratore, che un bombardamento a tappeto non riesce comunque a distruggere integralmente le difese, perciò si deve concludere che la potenza di fuoco mira a demoralizzare gli uomini. La baraonda incessante tende a distruggere la vista, il pensiero e la memoria. Un bombardamento può durare ore, e per ore ognuno è isolato dagli altri, steso a terra o dietro un riparo di fortuna nel fumo e nel caos, senza sapere se gli altri sono vivi o morti.

Ma ecco, un soldato senza nome, solo in uno stuolo di morti, si oppone ad un carro armato. Prende la mira. Sbaglia. Riprova. E colpisce. Mai provata una gioia simile. Solo con un fucile. A chi pensa? ai suoi genitori? mai conosciuti; morti di tifo nella stazione di Melitopol durante la guerra civile, mentre fuggivano da Pietrogrado per andare in Crimea. Aveva solo due anni, e lo misero in un orfanotrofio. Era stato allievo di una scuola per ferrovieri. Abbandonata la scuola aveva cominciato a lavorare, s’era sposato, aveva divorziato, lasciato anche il lavoro. S’era messo a bere. La guerra lo aveva sorpreso in un campo di lavoro. Aveva chiesto di arruolarsi e gli avevano dato la possibilità di riscattarsi. E oggi a Stalingrado, ecco, ha distrutto un carro armato. Ma un secondo carro avanza. È sicuro di farcela, ha già vinto una volta. Una raffica lo coglie poco prima che possa sparare. Gli infermieri lo trovano ancora vivo con la schiena spezzata e il ventre aperto, e lo trascinano via su un cappotto.  

A sera Filiaškin fa il bilancio: tra gli ufficiali due sono ancora vivi, Švedkov, il commissario, e Kovaliov, ma il sessantacinque per cento dei soldati sono morti. E il giorno dopo anche tutti gli ufficiali saranno morti e, ciò nonostante, i soldati continuano a battersi durante tutto un giorno e nella notte successiva, quando i tedeschi scatenano un attacco notturno, mai visto prima, all’arma bianca: coltelli, pale, speroni, mattoni, ogni cosa è un’arma.

La notte è nuvolosa, i nemici strisciano, ventre a terra, tra le rovine: forse sono scese le tenebre perché l’uno non possa vedere l’odio negli occhi dell’altro, commenta la voce narrante. Nel buio si odono urla, rantoli, colpi di pistola, di fucile, brevi raffiche di mitragliatrice. I nemici sono dappertutto, sono feroci, colpiscono e uccidono. I sovietici si difendono e li obbligano a spegnere le pile che hanno con sé per segnalare con una luce verde la conquista di una postazione. E le luci verdi via via son sempre di più e punteggiano il nero notturno; eppure c’è ancora chi resiste: è il gruppo di Vavilov. 

Manca poco all’alba e il combattimento ha una tregua. In questa notte nera, poche ore prima di morire, questi uomini parlano, parlano … di come riconoscere i tedeschi dal rumore che fanno arrampicandosi, di com’era bella la vita prima della guerra … Uno di loro, di solito silenzioso, racconta la sua vita in tempo di pace, si chiama Mikola Mefodievič Muliarčuk. Era muratore, costruiva stufe; non era sposato, non andava a donne, non beveva e viveva ancora con la mamma, una donna per bene che si preoccupa per lui, si chiama Mar’ja Grigorievna, una sarta molto abile, sa fare ogni tipo di abito, ma lavora soprattutto per i contadini, giacche e camicie come quelle che i mugic mettono d’estate o i cappotti che le donne mettono d’inverno, ogni tipo di gilet senza maniche e gonne bordate che si mettono per le feste, sottogonne e bluse leggere, può cucire davvero ogni cosa. Poi tutti tacciono. 

E infine all’alba i soldati della XIII Divisione sentono ancora raffiche di mitragliatrice che vengono dalla stazione. Poi più nulla.

I tedeschi, che dopo la battaglia esaminano il campo, si rendono conto che questi uomini hanno combattuto fino alla fine organizzandosi da sé, senza nessun ufficiale. È la riaffermazione del motivo della guerra di popolo: in opposizione alla retorica della Grande Guerra Patriottica, la dilogia grossmaniana evidenzia sempre il carattere popolare che ebbe la guerra contro i tedeschi, sentiti dal popolo come portatori di un ordine sociale ancora più duro di quello già sopportato con la guerra civile e la collettivizzazione delle terre e l’industrializzazione forzata, con il regime staliniano, insomma. Il popolo in armi spera che combattere gli invasori valga per una vita futura migliore di quella passata. 

La povera vita, la durezza della condizione popolare sovietica emerge anche quando i tedeschi perlustrano il campo di battaglia dopo che gli uomini di Filiaškin sono morti tutti. Tra di loro ci sono il tenente Bach e l’SS Lehnard: ci sono solo povere cose tra questi resti, nemmeno un foglio di giornale, nemmeno una rivista illustrata, osserva Bach, nemmeno un fazzoletto negli zaini sottili, nel tascapane di un luogotenente, certo quello di Kovaliov, ci sono dei quaderni, fogli di carta, lettere e solo un coltello, uno specchietto, un rasoio.

A conclusione di questa vicenda il commento del narratore si fa ampio ed articolato. Gli preme ribadire che questi uomini (e queste donne) ordinari compirono atti straordinari. Dei combattenti che tennero la stazione per tre giorni non si conosce il nome: per questo il romanzo glielo restituisce, perché essi, i morti della stazione, fondarono la dura legge di Stalingrado che esige unione delle forze, di qualunque forza, senza distinzione di grado. 

Guida alla lettura

Gli episodi della stazione e del Sei barra toccano diversi temi: la bruttura della guerra , il conflitto tra guerra popolare e “Grande Guerra patriottica”, cioè tra resistenza popolare e narrazione di Stato. Forte anche il racconto del conflitto tra il popolo in prima linea e la gerarchia militare e politica. Lo stesso conflitto è raccontato anche a proposito degli scienziati, potete trovarlo alla pagina dedicata al professor Štrum.


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