Tár. Parla il regista Todd Field

Tár. Parla il regista. Todd Field è il regista di “Tár” candidato a sei Oscar. È stato attore, ha lavorato con Stanley Kubrick in Eyes Wide Shut (era il pianista). Da 16 anni non lavorava nel cinema («intanto mi facevo i muscoli in pubblicità»). E 16 anni dopo il suo film esordisce alla Mostra di Venezia 2022, vince i premi più prestigiosi, è candidato all’Oscar. Il racconto ha al centro una donna di potere. «Agli uomini che abusano del proprio ruolo eravamo abituati» racconta Todd Field a iO donna del 27 gennaio 2023 nell’intervista è di Paola Piacenza.

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Alla conferenza stampa veneziana del film Tár Cate Blanchett aveva detto: «Quando Todd Field decide di uscire di casa e fare un film conviene stare all’erta». Erano 16 anni che l’ex attore passato dietro la macchina da presa non faceva film. Le due pellicole che aveva girato nel 2001 e 2006, In the Bedroom e Little Children, avevano decretato la nascita di un talento. Cinque nomination agli Oscar il primo, tre il secondo, se fosse servita conferma.

E invece niente, la promessa era stata smentita, per 16 anni Field era sparito dai radar. Fino a quando aveva deciso di uscire di casa. O molto prima. Perché i film hanno spesso gestazioni lunghe e solo quando finalmente vengono consegnati al mondo si rivela il lavoro che c’è stato dietro le quinte, per anni. O per un intero decennio, come nel caso di Tár, che passato in concorso alla Mostra di Venezia a settembre, esce finalmente in sala il 9 febbraio, dopo aver collezionato una Coppa Volpi, un Golden Globe, grazie all’incredibile performance di Cate Blanchett, e 6 nomination all’Oscar. Due sono per lui, miglior regia e miglior sceneggiatura originale.

“Originale”, nel generale conformismo hollywoodiano (che spesso attribuisce nomination e premi in base alle categorie identitarie, etniche e di genere) è davvero l’aggettivo più appropriato per questo film di cui l’autore, sbarcato a New York da Portland con una borsa di studio per studiare musica, ha ultimato la scrittura durante la pandemia. Quando «tutte le regole erano saltate e gli Studio davano luce verde anche a progetti inimmaginabili prima. La mia proposta era quella di un film sul milieu della musica classica, un po’ generica… Di solito lavoravo come “clean up guy”, il tizio che ripulisce i lavori degli altri. Mi chiesero: “Todd, ma che film hai in mente?”. La mia risposta fu: “Non lo so, ma fidatevi di me”, racconta candidamente Todd Field a iO donna nell’elegante cornice dell’Harm Yard Hotel di Londra.

Perché ha aspettato 16 anni per fare un nuovo film?
Nel 2006, facendo il tour promozionale di Little Children in compagnia dei bambini che avevano lavorato nel film mi sono reso conto di quanto mi mancassero i miei (all’epoca Field ne aveva 3, avuti dalla moglie Serena Rathbun, costumista, ndr). Ho molti rimpianti riguardo al mio ruolo di padre, mentre i miei figli crescevano io lavoravo incessantemente e dicevo a mia moglie: «Se avessi l’opportunità di averne un altro, credo che farei diversamente». Proprio mentre ero in tour col film, Serena mi chiama e mi dice: «Indovina, sono incinta». Quel bambino, un bambino incredibile, ha cambiato tutto, la mia percezione delle cose, del lavoro, mi viene da piangere (davvero gli si inumidisce il ciglio, ndr) a pensarci. Per rispondere alla sua domanda, avevo bisogno di una vera buona ragione per fare un altro film.

In 16 anni lei sarà cambiato. È un uomo diverso e un regista diverso?
Non sono stato con le mani in mano. Ho girato spot pubblicitari per mantenere la mia famiglia e questo mi ha reso, tecnicamente, molto più forte. Se lavori in pubblicità hai l’opportunità di testare le macchine prima dei registi di cinema, e di appropriarti dei dispositivi di ogni genere. Questo ha reso i miei muscoli tonici, mi ha permesso di prendere decisioni veloci. I film che ho fatto prima di questo lungo iato erano nati in modo diverso, erano produzioni a basso costo, lavori che avevo ottenuto per aver insegnato all’American Film Institute.

Il film è il frutto di una lunga collaborazione con la sua protagonista, Cate Blanchett. Come è andata?
Conosco Cate da 10 anni, l’avrei voluta per un altro film che non si è fatto. Da quando ci siamo incontrati non abbiamo mai smesso di dialogare. Cate è forse la più grande attrice di cinema vivente, non voglio usare iperboli… ma le uso lo stesso, Cate è così umile da intimidirti, arriva preparatissima sul set, fa sembrare tutto facile, e ha una cassetta di attrezzi che tu non sapevi nemmeno esistessero. È vero che non sai mai cosa avrai quando scritturi un attore, ma la sorpresa con lei è stata totale. Comunque, 10 anni dopo quel primo incontro, con il mondo a gambe all’aria, io avevo ancora in testa lei, ogni mattina mentre mi sedevo alla scrivania e cominciavo a lavorare la salutavo, non se ne andava, non riuscivo a sostituirla con nessun altra. E questo mentre lei ancora non ne sapeva niente. La preparazione del film è stata complessa. Per 9 mesi prima che iniziassimo le riprese a Berlino, Cate ha dovuto imparare tutto, a suonare Bach, a dirigere, a parlare tedesco. Tár è nel film un direttore d’orchestra di straordinario talento e molto potere, ma con altrettante ombre: bugie sul suo passato (forse non è stata allieva di Leonard Bernstein come dice), qualche scheletro nell’armadio (il suicidio di una ex collaboratrice) e un istinto predatorio.

Da dove viene l’idea di fare di un personaggio simile una donna e lesbica?
Lo sappiamo tutti come funziona quando sono gli uomini ad abusare del loro potere, perché sono gli uomini ad avere il potere, da sempre. Donne e gay sono stati tagliati fuori dai giochi, perciò in qualche modo si può dire che questo film sia una favola, un racconto lontano dalla realtà. Ciò che volevo esplorare era il funzionamento del meccanismo, perché il potere per durare richiede complicità, impone che un sacco di gente rivolga lo sguardo altrove e permetta gli abusi. Siamo così naturalmente portati a voler dominare gli altri… Se avessi fatto un film su un uomo che mette in atto queste dinamiche credo che non sarebbe importato a nessuno, leggiamo storie simili ogni giorno sui giornali, io certamente non sarei andato a vederlo. In quel milieu, il mondo della musica classica, non c’è mai stata una sola donna alla guida di una delle grandi orchestre. Questa è la ragione della mia scelta, perché vorrei che il film sollecitasse domande. Abbiamo due ore e mezza in compagnia di questa donna incredibile, siamo abituati al patriarcato, agli uomini che si comportano male, ma a me questo non interessa, come Tár si comporta è una pura astrazione.

Non è compito dei film, o dell’arte in generale, darci risposte?
No, non lo è. I media sono cambiati molto negli ultimi tempi, sono sempre più polarizzati. E sono molte le opere in cui non ci facciamo scrupolo di giudicare e decidere a priori chi è innocente o colpevole e di solito lo è al 100 per cento. Io volevo tenermi a distanza da tutto questo.

Il requiem di Tár è in larga parte determinato dall’atmosfera generata dalla rivoluzione del #MeToo e della Cancel Culture. È stato un punto di partenza per il film?
La prima decisione che ho preso sul film è stata il quando e il dove. Il quando è ora, il dove è a metà strada da Europa e America. C’erano scandali anche ai tempi di Aristofane e nell’Inghilterra elisabettiana, ma io volevo parlare di noi, non del passato. Gli strumenti dell’annientamento di Tár potevano essere di tutti i tipi, #MeToo compreso, ma il film non riguarda questo, riguarda le decisioni che prendiamo e le loro conseguenze. Riguarda il potere, non le reazioni all’abuso di potere.

Le scene con l’orchestra sono bellissime e potenti. E Cate è un maestro molto credibile. Come avete fatto?
John Mauceri, direttore d’orchestra, compositore e autore di un importante libro sulla direzione d’orchestra (A lezione dai maestri. Arte, alchimia e mestiere nella direzione d’orchestra, in Italia lo pubblica EDT, ndr) mi ha fatto un crash course nel milieu. Gli aspetti tecnici di questo film sono terrificanti. Per le scene con l’orchestra avevamo 95 posizioni diverse per le macchine da presa e ogni gesto, ogni movimento di ogni orchestrale doveva essere pianificato. Non ero certo che saremmo sopravvissuti. Per questo abbiamo deciso di girarle per prime. Se non ce l’avessimo fatta, il film non sarebbe proseguito. Ma mi sembra sia andata bene e alla fine quella scelta ci ha dato grande fiducia per quello che ci aspettava poi. Ma ne siamo usciti esausti…

Il film, proprio perché parla del qui e ora ha suscitato molte polemiche, l’ultima da parte della direttrice d’orchestra Marin Alsop che si è detta offesa dalla prepotenza del personaggio «in quanto donna, musicista e lesbica».
Il film è una lavoro di finzione, non è un annuncio pubblico destinato alle donne o agli uomini. Io non credo che il potere abbia un genere. Chiunque si avvicina al potere lo fa perché è seduttivo ed è strutturato con uno schema piramidale. Noi permettiamo che sia così perché il mantenimento del potere si basa largamente sulle transazioni che è in grado di mettere in atto (il personaggio interpretato da Nina Hoss, la moglie di Tàr, primo violino dell’orchestra, nel film dice che «l’unica relazione non transazionale di Tár è quella con la figlia, ndr). Ci vuole una lente diversa da quella della cronaca degli abusi per illuminare, non la singola persona, ma la cosa, per capire perché lei fa quello che fa e quali vantaggi ne trae. Vantaggi che riguardano non solo lei, ma anche chi gravita attorno al centro di potere che lei rappresenta.

Quando lei lavorava come attore, ha interpretato il ruolo del pianista in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Direbbe che Kubrick è stato il suo mentore?
Non ho mentori, Tàr mente a proposito di Bernstein, forse nemmeno lei ne ha. Ho lavorato con Stanley Kubrick, ed è stato con me molto generoso sia in termini di tempo che di consigli, e non è stato l’unico. Non credo in quella mitologia, chi parla e straparla di mentori forse dovrebbe smettere.


Guida alla lettura

Sia dalle domande che dalle risposte di questa intervista è possibile dedurre quali sono i temi che la critica al film ha dibattuto.

  • Il tema femminista: la critica più piccata è venuta da ambienti femministi: quali le osservazioni e quali le ragioni che si possono ricavare dal testo e dalle vostre personali info sul contesto.
  • Il tema della violenza devastante dei social fa precipitare Lidia Tár “dalle stelle alle stalle”: quali passaggi dell’intervista toccano questo tema?

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