Tecnici e politici, il Giano bifronte

Intervento del 10 novembre 2021 su LaStampa di Massimiliano Panerari. Il commento di Panerari s’inserisce nel dibattito su tecnocrati vs politici cui hanno dato vita Massimo Cacciari e Natalino Irti sul medesimo quotidiano. Qui è rubricato nella pagina “Digitale e democrazia“.


Nelle democrazie rappresentative cresce un’ondata tecnocratica. A ben guardare, questa alta marea è in corso da parecchio, almeno dalla metа degli anni Settanta del Novecento, con l’avvento della società postindustriale. Il nodo, sottolineano alcuni osservatori, è che l’idea di affidare la risoluzione dell’attuale crisi di sistema al paradigma della tecnocrazia, giunta nel frattempo alla sua onda perfetta (per dirla col linguaggio del windsurf), espone delle società sempre più fragili a una tempesta anch’essa perfetta. Così, nel dibattito in corso su queste pagine, figure dell’autorevolezza di Massimo Cacciari e Natalino Irti avvertono l’esigenza di ribadire come non possano esistere la sovranità e una comunità senza il primato della sfera del Politico nello stabilire le finalità collettive.

Difatti, nella nostra (al medesimo tempo, liquida e gassosamente turbolenta) condizione postmoderna, il tecnoliberismo e i neopopulismi, l’un contro gli altri armati, condividono lo stesso nuovo “spazio pubblico”, che è quello della spoliticizzazione, e del tramonto dell’utilità e della credibilità della politica presso larghi settori della pubblica opinione. E, una volta delegittimata la funzione della politica, i duellanti finiscono così per tenersi insieme e “giustificarsi” reciprocamente.

Il fatto è che, per quanto si possa auspicare un ritorno a una partecipazione politica diffusa, le odierne società complesse e a elevato tasso di sfiducia generale (come ha confermato l’astensionismo nelle ultime elezioni amministrative italiane) non lo rendono affatto praticabile. Per giunta, come si vede in maniera plastica nei cortei No-Pass, la residuale mobilitazione contemporanea si verifica più agevolmente intorno a cause sbagliate (e antisociali), perché congruenti con un contesto nel quale ciascun individuo – sempre più monade isolata – si costruisce, a dispetto del principio di realtà, la propria personalissima lettura del mondo prêt-à-porter ricorrendo alle infinite fonti non verificate o inattendibili immediatamente a disposizione. Un effetto della «pandemia di narcisismo», esplosa anch’essa in coincidenza con la transizione postindustriale delle nazioni occidentali, come denuncia nel suo ultimo libro (Il nemico dentro, Luiss University Press) l’intellettuale Usa Tom Nichols, che giа aveva messo in guardia in un fortunato volume precedente (La conoscenza e i suoi nemici, sempre Luiss U.P.) dai rischi per la democrazia nell’«era dell’incompetenza»

Ecco perché occorrerebbero molti più saperi (specialistici e non) direttamente all’interno del mondo della politica, che non può compendiarsi esclusivamente nella perenne e ossessiva ricerca del (facile) consenso – e, del resto, è (tristemente) risaputo quanto l’invocazione della legittimazione popolare attraverso il voto venga, a volte, invocata strumentalmente anche per giustificare esiti che indeboliscono le democrazie costituzionali («lo vuole il popolo!»). Mentre la conoscenza e competenza – come argomenta da anni nei suoi studi il sociologo Guido Gili – va precisamente considerata come la «prima radice» della credibilità in seno a una comunità politica. Ci sarebbe pertanto bisogno di molti più «tecnici politici», o di politici con competenze tecniche profonde, dato che tutte le emergenze contemporanee (come quella climatica) e le frontiere che stanno cambiando la nostra vita (come l’intelligenza artificiale) non si affrontano mediante l’improvvisazione o il «bla bla bla» (come tende invece a fare una consistente parte del ceto politico incompetente su queste e altre materie). E dovrebbero essere proprio i partiti e i corpi intermedi a intessere un confronto assiduo e proficuo con esperti, tecnici e studiosi, come già accaduto in varie stagioni del passato. Generando in tal modo anche scuole e filiere di tecnici «di sinistra» e «di destra», a cui poter attingere lungo i percorsi dei processi decisionali: tecnici dotati di una sensibilità politica, per l’appunto, superando la visione (secondo alcuni, una mitologia) della neutralità tecnocratica. Ma se tutto ciò seguita a non avvenire, e ci si limita giusto ad affermare che la tecnocrazia non è «la» soluzione e non deve diventare permanente, essa continuerа a occupare spazi perché, come noto, in politica e in natura i vuoti vengono presto riempiti. E, dunque, la politica anziché votarsi alla lamentazione dovrebbe riappropriarsi direttamente e fare crescere anche al proprio interno delle expertise in costante aggiornamento, abbandonando le scorciatoie cognitive dello slogan e della promessa irrealizzabile.


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