Terre spezzate una giovane donna. La biografia di una giovane donna. Khulood al-Zaidi. Una biografia, impegnativa per la sua estensione. Come la guerra sconvolge le vite dei singoli.
Terre spezzate una giovane donna.. Vi riproponiamo una storia personale pubblicata nel 2016 raccolta nel reportage Terre spezzate. Viaggio nel caos del mondo arabo, pubblicato su La Repubblica del 18 agosto 2016 (in formato digitale, seguendo il link). L’autore è Scott Anderson.
PENULTIMA DI SEI FIGLI – TRE MASCHI e tre femmine – nati da un radiologo ospedaliero e una casalinga, Khulood al-Zaidi ha avuto un’infanzia relativamente confortevole. Come la maggior parte delle giovani di Kut, una cittadina di provincia dagli edifici bassi e una popolazione di circa quattrocento abitanti che sorge a cento miglia a sud di Baghdad, lungo il Tigri, viveva un’esistenza ritirata e al tempo stesso estremamente irreggimentata: tutti i giorni, dopo la scuola, tornava subito a casa per aiutare con le faccende domestiche prima di rimettersi a studiare. Oltre che per recarsi a scuola, Khulood si avventurava raramente fuori casa, se non per l’occasionale uscita di famiglia o per aiutare la madre e le sorelle più grandi a fare la spesa. In ventitré anni si era allontanata dalla sua città un’unica volta, per andare a Baghdad dalla mattina alla sera, accompagnata dal padre.
Tuttavia, poiché l’ambizione trova il modo di attecchire anche nelle circostanze meno propizie, Khulood era stata determinata a lasciare Kut, e concentrava le proprie energie sull’unica strada che avrebbe potuto permetterle di riuscirvi: l’istruzione universitaria. Una scelta che trovava in suo padre una sorta di alleato. Ali al-Zaidi infatti voleva che tutti i suoi figli, comprese le tre ragazze, si laureassero – anche se l’obiettivo ultimo dell’educazione delle ragazze sconfinava nel mistero. “Per molti versi mio padre era decisamente progressista”, mi ha detto. “E tuttavia l’università per lui non era finalizzata ad una carriera professionale. Piuttosto, credeva che avremmo dovuto “studiare sodo, prenderci una laurea ma poi trovarci un marito” “. Scrolla le spalle. “È così che andavano le cose in Iraq”. Khulood si iscrisse al corso di laurea in letteratura inglese presso un’università locale, ma l’aspettativa era che una volta laureata, dopo aver insegnato per qualche anno inglese in una scuola della zona si sarebbe sposata e avrebbe messo su famiglia. Lei invece aveva un piano diverso: dopo aver imparato l’inglese sarebbe andata a Baghdad per cercare lavoro come interprete per una delle poche compagnie straniere che all’epoca operavano in Iraq.
Quel programma andò in fumo quando, a soli tre mesi dalla laurea, gli americani invasero l’Iraq. Kut fa raggiunta dai combattimenti all’alba del 3 aprile 2003, quando le unità avanzate della First Marine Expeditionary Force Usa circondarono la città e per ore distrussero sistematicamente una ridotta irachena dopo l’altra, integrando l’impiego dei carri armati e dell’artiglieria a terra con un sollecito supporto aereo. Di quella battaglia per la sua città Khulood, che all’epoca aveva ventitré anni, ha sentito parlare molto ma non ha visto nulla. La spiegazione di ciò è semplice: “Le donne non potevano uscire di casa”, mi ha detto.
Prima dell’invasione il vicepresidente Dick Cheney aveva pronosticato che gli americani sarebbero stati accolti in Iraq “come dei liberatori”, e il quattro aprile nelle strade di Kut la sua previsione si rivelò fondata. I marines, ancora intenti a consolidare la loro presa sulla città, vennero gioiosamente attorniati da ragazzi e bambini che offrivano loro vassoi di dolci e tè caldo. Quando le fu finalmente permesso di uscire da casa, Khulood andò a osservare lo spettacolo mantenendosi a una discreta distanza, come la maggior parte delle donne di Kut. “Gli americani erano molto rilassati e cordiali, ma a colpirmi fu soprattutto la loro stazza. Sembravano enormi, così come tutti i loro armamenti e i loro veicoli. Sembrava tutto fuori misura, come se fossimo stati invasi dagli extraterrestri”.
Mentre altrove si continuava sporadicamente a combattere contro ciò che rimaneva del governo baathista di Saddam Hussein – gruppi che l’amministrazione Bush aveva definito orwellianamente “forze anti-irachene” – i pochi militari della coalizione che rimasero a Kut durante quella primavera e sino all’inizio dell’estate si sentivano sufficientemente al sicuro da unirsi ai residenti senza indossare giubbotti antiproiettile e perlustrare le strade cittadine a bordo di camion privi di protezione. Quei soldati riportarono la città a uno stato di quasi normalità. L’università fu riaperta dopo soli due mesi, il che permise a Khulood di conseguire la laurea quell’agosto stesso. La vera difficoltà stava nel ricostruire l’economia devastata della nazione e ristabilire un governo. A quel fine, un piccolo esercito di ingegneri, contabili e consulenti stranieri giunse in Iraq sotto l’egida dell’Autorità provvisoria di coalizione, o Cpa: l’amministrazione transitoria a guida americana che una volta che fosse stato formato un nuovo governo iracheno sarebbe stata sciolta.
Tra gli esperti vi era un’avvocatessa dell’Oklahoma di trentatré anni di nome Fern Holland. Consulente dei diritti umani per la Cpa, la Holland era sbarcata in Iraq nell’estate del 2003 con delle direttive specifiche che miravano allo sviluppo di progetti volti ad accrescere i poteri delle donne nelle zone interne dell’Iraq meridionale, a maggioranza sciita. Nel settembre del 2003, la sua missione la portò a Kut, dove incontrò per la prima volta Khulood. “Mi ricorderò sempre della prima volta che vidi Fern”, mi ha detto Khulood. “Riunì alcune di noi per discutere del lavoro che intendeva svolgere in Iraq. Era sorprendentemente giovane, ed è facile dimenticarsene, perché aveva una personalità molto decisa. Aveva i capelli biondi e lunghi e dei modi molto aperti e cordiali. Non avevo mai incontrato una donna come lei. Credo che nessuna di coloro che si trovavano in quella stanza avesse mai incontrato una donna così”. Ciò che Fern Holland disse alle donne in quella sala di Kut parve loro non meno esotico del suo aspetto. Con il rovesciamento di Saddam Hussein, spiegò, sarebbe nato un Iraq nuovo, in cui la democrazia e il rispetto dei diritti umani avrebbero regnato supremi. E per consolidare questo nuovo Iraq ognuno avrebbe dovuto fare la sua parte, a cominciare dalle donne di Kut.
Quelle parole colpirono Khulood con la forza di una rivelazione. Era il momento che aveva sempre aspettato. La ragazza iniziò quasi immediatamente a prestare servizio come volontaria per le iniziative della Holland a favore dei diritti delle donne. “In passato avevo già riflettuto su quei temi, ma sotto Saddam Hussein erano delle fantasticherie “, mi ha detto Khulood. “Finalmente riuscivo a vedere un futuro per me stessa “. La Holland forse non era altrettanto fiduciosa. In base ad esperienze passate che aveva maturato in Africa, presso delle società conservatrici in cui dominavano gli uomini, sospettava che fosse solo una questione di tempo – probabilmente pochissimo tempo – prima che le forze della tradizione si sarebbero levate per opporsi alla sua opera; quindi si sforzava di mettere rapidamente in moto il cambiamento. Sapeva anche che il suo ruolo, in quanto outsider, doveva essere limitato. L’impresa doveva essere affidata a donne del luogo dinamiche. Donne come Khulood al-Zaidi.
Il mese successivo la scelse come rappresentante per partecipare a una conferenza nazionale sulla leadership femminile organizzata sotto gli auspici della Cpa. A quella conferenza Khulood ricevette una notizia addirittura più esaltante: era stata prescelta per far parte di una delegazione di donne che presto si sarebbe recata a Washington per aiutare ad abbozzare la nuova Costituzione dell’Iraq. La notizia di quell’incarico si diffuse durante la conferenza provocando delle reazioni negative. “Molte donne obiettarono per via della mia età”, mi ha detto Khulood. “Persino io pensavo di essere forse troppo giovane. Fern tuttavia insistette, e disse alle altre donne: “Khulood rappresenta la gioventù dell’Iraq. Partirà”. Era la mia più convinta sostenitrice”.
Durante quel viaggio a Washington, nel novembre del 2003, la ventitreenne Khulood, fresca di laurea, incontrò una sfilza di dignitari, tra cui il presidente George W. Bush. Al suo ritorno fu ufficialmente assunta dalla Cpa come vice responsabile dell’ufficio comunicazione di Kut. Un riconoscimento importante per una giovane che, meno di un anno prima, non immaginava per se stessa un futuro migliore che quello di trovare lavoro come interprete per una compagnia straniera. “Erano tempi emozionanti, perché si sentiva che tutto stava cambiando molto rapidamente”.
AFFACCIANDOSI AL NUOVO MONDO che Fern Holland aveva spalancato di fronte ai suoi occhi, Khulood ancora non sapeva che i semi del disastro per l’intervento americano erano già stati piantati. Con una mossa considerata oggi calamitosa dai più, Paul Bremer, capo della Cpa, decise tra le sue prime iniziative di smobilitare l’esercito iracheno. Dalla sera alla mattina, nell’estate del 2003 centinaia di migliaia di uomini militarmente addestrati e muniti di armi si ritrovarono così allo sbando. Alla luce di simili cantonate stupisce come l’occupazione dell’Iraq non sia fallita prima. Nell’agosto del 2003 si verificò un episodio che lasciava presagire quanto sarebbe accaduto in seguito: un camion-bomba distrusse la sede delle Nazioni Unite a Baghdad, uccidendo ventidue persone, tra cui Sérgio Vieira de Mello, rappresentante speciale del segretario dell’Onu in Iraq. A partire da quell’evento, gli attentati contro le forze della coalizione registrarono un costante aumento. Agli inizi del 2004 i funzionari della Cpa percepivano che le loro iniziative erano accolte con un’ostilità vieppiù intensa, tanto che persino Fern Holland iniziò a preoccuparsi. L’8 marzo 2004 fu firmata la nuova Costituzione provvisoria dell’Iraq. Il comma che stabiliva l’obiettivo di affidare a delle donne il venticinque percento dei futuri seggi parlamentari viene ampiamente attribuito all’opera di lobbying svolta con discrezione da Fern Holland.
Il pomeriggio successivo tre dipendenti civili della Cpa stavano percorrendo una strada provinciale a bordo di una Daewoo quando la loro auto fu accostata da un pick-up della polizia irachena. Raggiunta da raffiche esplose da armi automatiche, l’automobile sbandò finendo sul ciglio della strada; gli uomini a bordo della vettura della polizia uscirono dall’abitacolo per finire le proprie vittime a colpi di mitra. I tre occupanti della Daewoo furono uccisi, divenendo i primi civili della Cpa ad essere assassinati in Iraq. Presunto obiettivo dell’attento era la persona alla guida dell’auto: Fern Holland. Il 5 aprile fu la volta di Kut, dove circa duecento uomini presero d’assalto la sede della Cpa. Khulood rimase chiusa per ore nell’ufficio comunicazione della Cpa mentre le forze della coalizione assegnate a difendere il complesso rispondevano al fuoco. Alla fine, un direttore della Cpa le disse: “Se non hai paura dovresti andartene “. Insieme ad altri due dipendenti iracheni riuscì a lasciare il complesso e fuggire attraverso delle stradine secondarie. E continuò a nascondersi anche dopo che il Cpa fu abbandonato.
Sia le forze sunnite che sciite intensificarono gli attacchi contro le forze della coalizione, segnando il vero inizio della guerra. Eppure, malgrado ciò, la Cpa procedette con i suoi piani, che prevedevano di cedere il controllo dell’Iraq a un nuovo governo centrale. A maggio gli ultimi civili stranieri di stanza a Kut iniziarono a lasciare la città, e nel giro di due mesi l’intera infrastruttura locale della Cpa fu posta sotto il controllo del nuovo governo di Baghdad.
Per qualche tempo questa transizione sembrò sedare gli spiriti nella città natale di Khulood, tanto da convincere la giovane a continuare a portare avanti le iniziative a favore dei diritti delle donne volute dalla sua mentore, morta assassinata. Quell’autunno Khulood aiutò a fondare una piccola organizzazione non governativa chiamata Al-Batul, o Vergine, che si prefiggeva degli obiettivi modesti. “A Kut vive una piccola comunità cristiana”, spiega. “La mia idea era quella di far collaborare donne cristiane e donne musulmane a dei progetti che fossero importanti per entrambe le comunità. Si trattava principalmente di insegnare alle donne a far valere i propri diritti e dimostrare loro che non erano sempre tenute ad obbedire alla volontà degli uomini”.
Ma in un Iraq dove il settarismo continuava ad intensificarsi, i membri della comunità cristiana erano visti sempre più come degli infedeli. Terrorizzati, i cristiani iniziarono così ad abbandonare a frotte il Paese; tale esodo ne avrebbe ridotto la presenza di oltre due terzi. Inoltre, dal momento che gli occupanti stranieri rappresentavano l’unica fonte di finanziamento possibile per un’iniziativa come quella di Al-Batul, i militanti vedevano in essa un’attività di copertura al servizio del nemico. Khulood iniziò a ricevere quasi subito delle minacce anonime che la diffidavano dal continuare ad occuparsi di “tematiche americane”. Minacce che si intensificarono al punto che la donna fu denunciata, per nome, da un quotidiano locale.
Il ricordo di quel periodo ha reso Khulood, che oggi ha trentasei anni, ombrosa e riflessiva. “Adesso mi rendo conto di quanto fossi ingenua e non prendessi la situazione sul serio quanto avrei dovuto. Mi occupavo di qualcosa che credevo avrebbe potuto migliorare la vita delle donne, e non capivo in che modo potessi rappresentare una minaccia “. Nell’ottobre del 2004 la sede di Al-Batul a Kut fu colpita da alcune raffiche di arma da fuoco. Khulood, impassibile, affittò allora un secondo ufficio, che fu saccheggiato. Il gennaio successivo, mentre stava partecipando a un seminario sui diritti umani ad Amman, capitale della vicina Giordania, ricevette un avvertimento: se avesse ripreso la sua attività a Kut sarebbe stata uccisa. Rimase per tre mesi in Giordania, ma nell’aprile del 2005 – a un anno dalla morte di Fern Holland e con i combattimenti in Iraq ormai sfociati in una guerra settaria – Khulood finalmente riuscì a fare ritorno nella sua città natale.
Oggi riconosce che la decisione di rientrare fu quasi imprudente. “Per me era molto difficile rinunciare al sogno che nutrivo per l’Iraq”, afferma, ricordando come Fern le avesse detto che “per determinare un cambiamento occorrono persone coraggiose, e che talvolta è necessario insistere con forza”. “Beh, io non volevo morire”, aggiunge. “Ma Fern era morta, e io mi ero aggrappata alla speranza che se avessimo insistito le cose forse sarebbero migliorate”. Poco dopo il suo ritorno a Kut, Khulood si recò al commissariato locale per denunciare il saccheggio del suo ufficio. Fu trattata con modi sprezzanti. L’incontro con una ex collega di Al-Batul le sembrò un presagio addirittura più infausto. “Perché sei tornata?”, le domandò la donna. “Lo sanno tutti che lavori per l’ambasciata americana”. Il giorno precedente, Khulood era stata convocata nella sede della locale milizia. “Fu allora che mi accorsi finalmente che in Iraq non avevo alcuna possibilità, e che se avessi insistito mi avrebbero certamente uccisa”.
KHULOOD NON FUGGÌ DALL’IRAQ DA SOLA. Attraversò il confine con la Giordania insieme alla sorella maggiore, Sahar, e qualche mese più tardi le due furono raggiunte ad Amman dal padre e dall’altra sorella, Teamim. I tre fratelli e la madre di Khulood, Aziza, scelsero invece rimanere in Iraq. Nell’estate del 2007 Khulood era preoccupata soprattutto per Wisam, il più giovane dei suoi fratelli. “La guerra era al culmine”, dice, “e i giovani uomini iniziavano ad essere prelevati per strada. Chiamavo Wisam di continuo. Gli dicevo che in Iraq non c’era futuro per lui, e che se ne sarebbe dovuto andare. Lui però aveva un gran cuore e rispondeva che doveva restare per prendersi cura di nostra madre “.
Una sera di settembre, mentre Wisam camminava con un amico per una strada di Kut, fu raggiunto da una scarica di mitra. “Aveva venticinque anni”, dice Khulood con tono dimesso. “C’è chi dice che sia stato ucciso per via dell’attività che svolgo, ma spero che non sia vero”.
A pochi mesi dall’assassinio di Wisam, Khulood si trovò ad affrontare una nuova difficoltà: mentre lavorava per una Ong rifiutò le proposte di un uomo d’affari giordano, corrotto ma ben ammanicato e in cerca di bustarelle. Era incappata nella persona sbagliata. Poco tempo dopo le fu ordinato di lasciare la Giordania. Poiché tornare in Iraq avrebbe quasi sicuramente significato la morte, Khulood si rivolse all’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, per essere trasferita d’urgenza in un altro Paese.
Una delle destinazioni più improbabili per il suo trasferimento erano gli Stati Uniti. Nel 2008 le truppe americane erano ancora invischiate nella guerra civile irachena, e l’amministrazione Bush aveva posto dei limiti rigorosi (di recente sono stati ammorbiditi) al numero di iracheni che potevano essere ammessi nel Paese come rifugiati. Consentire l’accesso a tutti coloro che erano fuggiti dal Paese (si stima che solo in Giordania vi fossero mezzo milione di iracheni) avrebbe contraddetto la sua affermazione che la guerra era finalmente giunta ad una svolta. Alla luce della grave situazione di pericolo in cui Khulood si trovava, l’Unhcr la incluse in un programma speciale riservato ai rifugiati più vulnerabili, per il quale gli americani avevano dei posti disponibili. A luglio del 2008 Khulood si imbarcò su un aereo diretta a San Francisco.
È difficile immaginare un cambiamento più radicale di quello che la portò dall’angusta, fatiscente abitazione che aveva condiviso ad Amman con il padre e due sorelle al bell’appartamento con una camera da letto di San Francisco. Khulood gioiva della sua nuova vita. “Avere la libertà di andare ovunque volessi senza preoccuparmi che potesse accadermi qualcosa di terribile. E non mi riferisco solo alla guerra: in Iraq una donna non si spostava mai da sola. Poteva forse capitare a Baghdad, ma di certo non a Kut. Quindi certi giorni prendevo un autobus o la metro e giravo per ore. Era qualcosa che non avevo mai immaginato di poter fare”.
Anche le sue prospettive di carriera migliorarono notevolmente. In Iraq Khulood aveva studiato inglese perché quella era la scelta che per una giovane donna sembrava offrire maggiori opportunità di libertà. Negli Stati uniti invece le opportunità erano infinite. “Dopo un anno ricevetti la carta verde e feci domanda per delle borse di studio in modo da studiare qualsiasi cosa avessi voluto. Divenni molto ambiziosa”.
L’unica, continua fonte di preoccupazione le veniva dalla sua famiglia, divisa tra l’Iraq e la Giordania. E mentre sapeva che i familiari che si trovavano a Kut non se ne sarebbero andati, Khulood desiderava ardentemente liberare il padre e le sorelle dalla situazione incerta in cui vivevano ad Amman. Così, poco dopo il suo arrivo a San Francisco, iniziò le pratiche per permettere loro di raggiungerla.
Dopo tre mesi Khulood ricevette delle notizie, alcune buone, altre no. Le sue due sorelle erano state accettate per il trasferimento, ma non suo padre. Le sorelle rimasero in Giordania mentre la famiglia presentava ricorso, ma Ali al-Zaidi fu rifiutato una seconda volta.
A febbraio del 2009, sette mesi dopo l’arrivo di Khulood a San Francisco, la pratica per il trasferimento di suo padre non era andata avanti. A quel punto lei prese una decisione fatidica: sarebbe tornata in Giordania, e da lì avrebbe perorato la causa del genitore.
“I miei amici di San Francisco non se ne capacitavano”, ricorda. “Perché, perché tornare indietro quando qui ti sei fatta una nuova vita?”. Khulood si fa pensosa per un attimo, come se ancora non riuscisse a trovare una risposta. “Come avrei potuto spiegare loro la mia cultura? In Iraq la famiglia è la cosa più importante, non puoi voltarle le spalle. Come avremmo potuto goderci la nostra vita in America se ciò avesse significato abbandonare nostro padre? Non avremmo mai potuto accettare una simile vergogna. Quindi decisi di tornare”.
Ad Amman, Khulood cercò instancabilmente e in ogni modo di far partire suo padre, presentando domanda di trasferimento non solo negli Stati Uniti ma anche in una manciata di Paesi europei. Ma ogni tentativo fu vano.
Quel che è peggio è che Khulood si era cacciata nel frattempo in una situazione problematica. Secondo le norme che regolano la legge sull’immigrazione in America, i rifugiati in attesa della carta verde non possono allontanarsi dal Paese per più di sei mesi. Essendo tornata e rimasta in Giordania, Khulood aveva quindi perso lo status di rifugiata. E adesso, insieme alle sorelle che aveva portato con sé fuori dall’Iraq, era tagliata fuori. Non poteva tornare a casa né andare in un altro Paese, e rimaneva dunque ostaggio dei capricci di uno Stato, la Giordania, che era ansioso di liberarsi di lei.
DOPO IL SUO RITORNO DA SAN FRANCISCO, nel 2009, Khulood era rimasta bloccata in Giordania. Nel 2014 viveva in un piccolo appartamento in un quartiere popolare della parte orientale di Amman, insieme a suo padre e alle due sorelle, Teamim e Sahar. Era un posto tetro, un edificio a tre piani senza ascensore che affaccia su una polverosa strada commerciale, ma addolcito dalla presenza di Mystery, il gatto delle sorelle, e Shiny, una tartarughina che avevano trovato in strada.
Prima di partire per gli Stati Uniti, nel 2008, aveva lavorato per breve tempo per un’organizzazione umanitaria giapponese chiamata Kokkyo naki Kodomotachi (Bambini senza frontiere), o KnK. Sotto certi aspetti, Khulood trovava i bambini siriani piuttosto diversi da quelli iracheni. “Gli iracheni, essendo ormai esausti della guerra, erano molto tranquilli, ed era facile lavorare con loro”, dice. “Ma i bambini siriani – i maschietti – avevano quest’idea: “Dobbiamo tornare in Siria per combattere”. Lo sentono dire costantemente dai loro padri – “Diventerai un soldato e tornerai in Siria” – perciò sono come dei piccoli guerriglieri, non come dei bambini.
Khulood non aveva ancora rinunciato ai suoi sforzi per portare la sua famiglia fuori dalla regione. Dotata di una forza di volontà apparentemente incrollabile, nei numerosi giorni di conversazione che ho avuto con lei sembrava determinata a guardare alla sua situazione nella luce più positiva possibile, ed era molto più interessata a parlare dei suoi piani attuali che dei suoi insuccessi passati. Solo una volta questa facciata di coraggio è venuta meno, quando discutevamo del futuro che immaginava per i bambini profughi con cui lavorava. “Continuo a fare questo lavoro perché voglio che questi bambini abbiano una vita migliore della mia”, dice, “ma francamente penso che la loro vita finirà sprecata, proprio come la mia. Cerco di non pensare in questo modo, ma siamo onesti: è questo il loro futuro. Per me gli ultimi nove anni sono stati abbi sprecati. Io e le mie sorelle abbiamo dei sogni. Siamo istruite, vogliamo studiare, avere una carriera. Ma in Giordania non possiamo lavorare legalmente, e non possiamo andarcene, ci limitiamo a starcene qui, ferme. È tutto qua. Ora stiamo diventando vecchie, siamo tutte sulla trentina, ma non possiamo sposarci o mettere su una famiglia, perché in questo caso non riusciremmo mai ad andarcene da qui”. Khulood si rimette a sedere e si lascia sfuggire un sospiro scoraggiato. “Mi dispiace. Cerco di evitare di commiserarmi o di dare la colpa a qual- cuno per questa situazione, ma vorrei tanto che gli americani avessero pensato meglio a quello che stavano facendo quando sono venuti in Iraq. È da lì che è cominciato tuto. Senza quell’invasione, la nostra vita sarebbe normale”.
Ma per Khulood e le sue sorelle, la situazione stava per peggiorare ulteriormente. Nell’autunno del 2014, dice Khulood, la Knk aveva problemi con il Governo giordano, che insisteva che il personale straniero dell’organizzazione doveva avere un permesso di lavoro legale. La KnK insisteva che il lavoro delle sorelle era esemplare, ma gli sforzi per tenerle furono vani: nel dicembre di quell’anno, le tre sorelle Zaidi furono tutte licenziate, nello stesso giorno.
ALLA FINE DEL 2015, KHULOOD AVEVA ESCOGITATO un piano disperato. Dopo che per anni le sue domande per trasferirsi altrove non sono approdate a nulla, ha capito che per la sua famiglia non c’era alcun futuro in Giordania. Per tutta l’estate e tutto l’autunno di quell’anno aveva seguito le vicende di centinaia di migliaia di aspiranti migranti che partivano per l’Europa dalla Turchia – e, con molti più pericoli, dalla Libia – a bordo di fragili gommoni. A dicembre, tuttavia, le cose stavano cambiando repentinamente: i governi europei hanno imposto sempre più restrizioni ai migranti e, con l’arrivo imminente dell’inverno, la traversata in mare si stava facendo di giorno in giorno più pericolosa. Come ha spiegato Khulood a suo padre e alle sue sorelle, se desideravano davvero cambiare la situazione dovevano agire immediatamente.
Poiché la salute del padre Ali al-Zaidi era troppo precaria per affrontare le difficoltà di un viaggio così arduo, la famiglia ha deciso che Sahar sarebbe rimasta con lui ad Amman, mentre Khulood e Teamim avrebbero preso la strada per l’Europa. Il 4 dicembre le due sorelle si sono imbarcate su un volo per Istanbul e da lì hanno seguito l’ormai battutissimo itinerario dei migranti lungo la costa turca fino a Smirne. Dopo essersi accordate con i trafficanti di uomini per un posto a bordo a duemila euro ciascuna, le sorelle hanno atteso. E il momento fatidico per loro è arrivato la notte dell’11 dicembre.
A bordo di un autoveicolo sono state portate a un’ora e mezza di distanza, lungo la costa. Sul bagnasciuga, Khulood e Teamim sono scivolate in acqua nel buio e si sono issate a bordo di un gommone già molto carico. Khulood ha contato almeno una trentina di passeggeri, invece degli otto-dieci che l’imbarcazione avrebbe dovuto contenere. E il gommone è stato spinto al largo, in direzione dell’isola greca di Samos, a tre ore di navigazione.
Il gommone sovraccarico era talmente inabissato nell’acqua dal peso che per due volte il motore fuoribordo si è spento dopo che le onde si sono riversate su di esso. Ma il pericolo maggiore è arrivato quando i passeggeri erano ormai prossimi alla salvezza: nel buio di una notte illuminata appena da un’esile luna, il pilota ha effettuato una manovra sbagliata cercando di avvicinarsi alla spiaggia di Samos e ha fatto schiantare il gommone su uno scoglio a pelo d’acqua. Immediatamente i canotti laterali hanno iniziato a perdere aria e a sgonfiarsi. Pronta a unirsi agli altri passeggeri che si buttavano in acqua dal gommone che stava affondando – per fortuna, indossavano tutti i giubbotti salvagente – Khulood ha pensato di cercare con gli occhi sua sorella maggiore. Teamin era seduta immobile, paralizzata dalla paura, incapace di reagire.
“Le ho urlato di saltare in acqua”, ricorda Khulood, “perché le onde erano altissime e ci stavano per scaraventare contro gli scogli. Ma lei non riusciva a muoversi. Ho capito che sarebbe morta e ho pensato che dopo esserci spinte così lontano i nostri destini erano per forza di cose legati”.
Khulood si è arrampicata sul gommone semiaffondato, ha raggiunto la sorella Teamim, l’ha afferrata e in qualche modo è riuscita a portare entrambe al sicuro sugli scogli, lontano dal gommone che stava affondando. Lì sono state però raggiunte da una forte ondata e Teamim è scivolata, per fortuna sulla terra ferma, e si è fatta male. Al buio, Khulood ha aiutato la sorella zoppicante a risalire quel tratto di costa per raggiungere il resto dei migranti che si accingevano a cercare un riparo per la notte.
Nei ricordi delle due sorelle originarie dell’Iraq le due settimane successive sono un turbinio confuso di spostamenti, attese e tensioni. Dopo essersi registrate presso le autorità greche a Samos, le due sorelle hanno ottenuto il permesso di salire a bordo di un traghetto diretto ad Atene, dove sono state ospitate a casa dell’amico di un amico. Mentre alle frontiere dell’Europa dell’est la situazione era in costante evoluzione – e non particolarmente di buon auspicio per le migliaia di migranti ancora diretti in massa verso nord – le due sorelle sono andate rapidamente avanti. Il 22 dicembre, dopo un tratto di strada percorso un po’ in autobus, un po’ in treno e un po’ a piedi, Khulood e Teamin hanno finalmente raggiunto la Germania meridionale. Avevano attraversato complessivamente cinque frontiere europee.
Arrivate a destinazione, però, la fortuna è sembrata venir meno. Arrestate poco dopo aver varcato il confine tedesco, le sorelle sono state detenute in prigione fino a tardi, poi sono state rispedite in Austria ed è stato impartito loro l’ordine di raggiungere il centro rifugiati di Klagenfurt. Non potendo recarsi da nessuna altra parte, Khulood e Teamim si sono semplicemente rannicchiate una accanto all’altra ai cancelli del campo. E poi ha iniziato a nevicare.
La loro salvezza è arrivata grazie ai social media. Dopo che Khulood ha postato notizie sulla loro situazione su Facebook, un piccolo gruppo internazionale di attivisti si è mobilitato per cercare qualcuno che nella zona di Klagenfurt potesse aiutare le due sorelle. L’aiuto si è materializzato nella persona di un parlamentare locale dei Verdi che ha portato Khulood e Teamim in un bar per mangiare e riscaldarsi. Da quel bar il politico ha inviato un messaggio urgente per cercare una famiglia locale che potesse ospitare temporaneamente le due sorelle, e nel giro di un’ora sono arrivate otto proposte. Dal bar, quindi, le sorelle Zaidi sono state accompagnate a casa di Elisabeth ed Erich Edelsbrunner.
“Oggi è il primo giorno che ci sentiamo rilassate e al sicuro”, ha scritto per email Khulood a un’amica in Inghilterra il giorno seguente, Natale. “La famiglia che ci ospita è molto gentile: ha messo a nostra disposizione la sua camera da letto. Ha un cane adorabile al quale mi sono affezionata”.
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