Buona parte del nostro turbamento ha invece origine da motivi interni. Vale a dire dall’essere costretti a constatare come nei decenni trascorsi dalla caduta del Muro di Berlino nessuno di noi abbia saputo immedesimarsi nella mentalità della Russia. O perlomeno in quella del suo attuale zar, quanto sarebbe bastato per riuscire a comprendere quali processi degenerativi fossero in corso e cosa vi sarebbe stato da attendersi.
Il fenomeno non è affatto nuovo, se consideriamo come neanche il dissolvimento del Patto di Varsavia e successivamente dell’Unione Sovietica fossero stati ai loro tempi previsti da nessuno tra le centinaia di istituti di studio e delle migliaia di cosiddetti “sovietologi” che si dedicavano con continuità a questo tipo di studi.
Curiosamente – o assurdamente, scegliete voi – soltanto un grande scrittore, John Le Carré, si era azzardato a fare previsioni in tal senso in La casa Russia, che rimane tra l’altro una delle sue opere più belle. Quel fallimento avrebbe dovuto far risuonare in noi quantomeno un campanello d’allarme.
Avrebbe dovuto convincerci a tentare strade diverse da quelle seguite sino ad allora per comprendere il paradigma di un mondo che, pur somigliando al nostro sotto molti aspetti, continuava a rimanere ben distante non solo dall’Occidente, ma anche dalla nostra interpretazione di quanto progressivamente avveniva al di qua delle sue frontiere.
Si è trattato di un rifiuto portato avanti con tale persistenza e arroganza che per decenni, anche dopo aver accettato l’ingresso dei paesi ex comunisti nella Nato, abbiamo continuato a considerare esagerate, se non assurde, le loro paure. In particolare quelle delle tre repubbliche baltiche, che ammonivano sulla possibilità di un ritorno offensivo della Russia.
Ciò in realtà è avvenuto progressivamente. Prima con episodi isolati come l’occupazione della Transnistria, sottratta alla Moldavia dalla XIV Armata del generale Lebed; poi con gli scontri in Georgia conclusisi con il riconoscimento di Ossezia e d’Abkazia; infine – in un accelerato crescendo – con l’annessione della Crimea, il sostegno ai ribelli del Donbass e la feroce guerra aperta alla Ucraina. Storia attuale.
I baltici insomma avevano perfettamente ragione, ma noi lo abbiamo capito soltanto adesso. Con un ritardo irrecuperabile sotto tantissimi aspetti. Si tratta di un vero peccato, perché prendere coscienza della situazione – nonché dei pericoli insiti nel suo progressivo incancrenirsi – ci avrebbe potuto indurre a portare avanti politiche ben diverse nei confronti della “Santa Madre Russia”, rispetto a quelle che hanno caratterizzato in questi ultimi trent’anni il blocco occidentale.
Nel decennio intercorso tra la caduta del Muro nel 1989 e l’ascesa al potere del presidente Putin nel 1999, una politica della mano tesa avrebbe potuto avvicinare considerevolmente la Russia all’Occidente, o addirittura permettere il suo ingresso fra le grandi democrazie.
Invece, ci siamo mossi in senso esattamente contrario, cercando unicamente di recuperare quanto prima possibile (e a nostro esclusivo vantaggio) ciò che risultava utile fra le macerie della casa crollata, favorendo la nascita di un capitalismo russo che ha depredato il proprio paese. Non ci siamo curati dei risentimenti che il nostro comportamento poteva creare in uno Stato dal forte e radicato orgoglio storico.
Il colpo di grazia a ogni possibilità di serena ed amichevole cooperazione lo hanno certamente dato le premature “corse verso l’Est” delle nostre due maggiori istituzioni collettive, la Nato e l’Unione Europea. Ma molto probabilmente a ciò si è aggiunto anche un desiderio di rivalsa, di vedersi cioè riconosciuto un posto nel mondo. Cosa che la Russia riteneva le spettasse di diritto e che gli altri non apparivano disposti a concederle.
Nulla scusa il modo in cui Putin ha deciso di reagire: tra quello che il presidente russo ha fatto sinora e quello che potrebbe fare domani vi è materiale più che sufficiente per un nuovo processo di Norimberga. Il suo comportamento è stato tale da far nascere in molti osservatori l’idea che troppi anni di potere assoluto e solitario avessero inciso sulla sua sanità mentale.
Comunque stiano le cose, a questo punto non rimane che chiederci cosa possiamo fare per uscire da questa situazione e come dovremo comportarci quando (e se) finalmente ne usciremo. Quesito particolarmente importante, per noi europei destinati a scontare in questa circostanza tutte le nostre imprevidenze. Siamo ancora politicamente divisi, privi di una difesa comune e realmente consistente, carenti sul piano dell’approvvigionamento energetico e con delle economie destinate a patire moltissimo qualsiasi misura restrittiva venga imposta alla Russia.
Oltretutto, e questo è di certo il maggiore degli svantaggi, se gli scontri dovessero estendersi ciò avverrebbe sul nostro territorio molto prima che su quello americano o quello russo. Per il momento la strada della fermezza e della unità dell’Occidente rimane certamente la migliore, forse l’unica che si possa ragionevolmente percorrere. Se si guarda più lontano, a una fase in cui questa crisi si sarà conclusa e sarà divenuta storia, si apre però per noi un ampio ventaglio di punti interrogativi, cui occorrerà rispondere.
Il primo consisterà nel chiedersi come operare per evitare che Mosca torni un giorno ad agire con la crudele spregiudicatezza dell’Unione Sovietica, o con la noncurante e spietata ambizione che Putin sta evidenziando attualmente.
Forse a quel punto apparirà chiaro come il contenzioso potrà chiudersi o divenire irrilevante solo quando anche la Russia potrà essere a tutti gli effetti una di noi. Manteniamoci quindi duri, anzi durissimi, sino a quando ciò risulterà indispensabile. Ma prepariamoci anche ad offrire una pace giusta, accettabile tanto per il vinto quanto per il vincitore.
Non l’abbiamo fatto alla fine della prima guerra mondiale, né al termine della seconda.L’abbiamo accuratamente evitato allorché si è conclusa la guerra fredda. Tutti errori che abbiamo duramente pagato. Proviamo almeno a non sbagliare per la quarta volta.