Ecco una quarta di copertina di Italo Calvino, che fu per molti anni il capo ufficio stampa della casa editrice Einaudi. Sono 461 parole per la maggior parte dedicate alla Marchesa Colombi, e una parte dedicate a Natalia Ginzburg come scrittrice connessa per certi aspetti alla scrittura della Marchesa Colombi. Non mancano le info che chiariscono al lettore chi sia la Marchesa Colombi e quali siano le sue qualità di scrittrice che vale la pena di leggere. Il centro del discorso è la provincia narrata dalla Marchesa, non alla maniera di Flaubert, ma di Čechov (come esprime seccamente la differenza tra i due modi?). Il massimo di tristezza con il massimo di allegria. Come Natalia Ginzburg!
Una quarta di Calvino. La fama letteraria della Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torelli-Viollier, 1846-1920) non è stata di largo raggio né di lunga durata: se il suo nome viene ricordato è più per esser stata moglie del fondatore del «Corriere della Sera» o come autrice di libri per l’infanzia, che per i suoi romanzi. E non mi sarebbe venuta l’idea di leggere Un matrimonio in provincia se non me ne avesse parlato con singolare entusiasmo Natalia Ginzburg. Mentre spesso nelle ricognizioni tra i minori dell’Ottocento italiano, le soddisfazioni di lettura devo pagarle con uno sforzo, una resistenza da vincere, qui dalle prime pagine si riconosce una voce di scrittrice che sa farsi ascoltare qualsiasi cosa racconti, perché è il suo modo di raccontare che prende, il suo piglio dimesso ma sempre concreto e corposo, con un fondo di sottile ironia: di quell’ironia su se stessi che è l’essenza dello humour. A contestare il mito della donna romantica con l’evidenza prosaica della fatalità piccolo-borghese, la narrativa tardo-ottocentesca italiana — dalla Serao a Neera — non mette avanti eroine alla Madame Bovary (anche il «bovarismo», in Italia, sembra privilegio maschile): più che alla provincia di Flaubert si direbbe che la nostra sia vicina a quella di Cechov: drammi silenziosi nelle esistenze senza avvenimenti di donne di casa frustrate nell’autonomia dei sentimenti. La Marchesa Colombi appartiene a questo filone ma è anche qualcosa di molto diverso: perché quando rappresenta la ristrettezza la noia lo squallore lo fa con una spietatezza di sguardo, una nettezza di segno, una deformazione grottesca da dare l’effetto del massimo di tristezza col massimo d’allegria poetica. Una reazione di lettura di questo genere non ci è nuova: cerchiamo di ricordarci quando l’abbiamo provata altrettanto viva: ma sí, è proprio leggendo Natalia Ginzburg! Questo humour caricaturale e naif che trasfigura la lagna dei giorni che passano, i silenzi e le chiacchiere, le incompatibilità che si accumulano nelle lunghe convivenze, è un segreto che pare trasmesso direttamente dall’autrice di Un matrimonio in provincia all’autrice delle Voci della sera, di Valentino, del Lessico famigliare. Non c’è da stupirsene, se questo romanzo è stato uno dei primi libri «da grandi» che Natalia ricorda d’aver letto, come essa stessa ci racconta presentando quest’edizione con uno scritto che è insieme capitolo d’autobiografia e implicita dichiarazione di poetica. Un matrimonio in provincia resta per lei il primo libro in cui tutto quello che si legge si stampa nella memoria; in cui un’immagine di città — una Novara ormai lontana nel tempo — prende corpo con una tale evidenza che — dice la Ginzburg — «mi sembrava impossibile non trovarvi immediatamente il parrucchino della matrigna, il paravento della zia, le otto seggiole rosse e le otto seggiole verdi, il messaggio d’amore appiccicato sul pezzo di manzo umido, i due gelati spartiti nei cinque piattini… » Italo Calvino