L’ uso pubblico della storia. L’espressione viene dal filosofo tedesco Jürgen Habermas che nel 1986 la utilizza, intervenendo nella durissima polemica (“Historikerstreit”) scatenatasi fra storici, politologi e filosofi tedeschi sul passato nazista della Germania e, in definitiva, sul peculiare problema di identità nazionale di chi appartiene al paese che ha la responsabilità della Shoah.
Lo storico Nicola Gallerano, che pur distingue la Storia degli storici di mestiere dal campo, vastissimo e intricato, del suo uso pubblico, ne propone una definizione più ampia: “Con questa espressione mi riferisco a tutto ciò che si svolge fuori dei luoghi deputati della ricerca scientifica in senso stretto, della Storia degli storici, che è invece scritta di norma per gli addetti ai lavori e un segmento molto ristretto del pubblico.
All’uso pubblico della Storia appartengono non solo i mezzi di comunicazione di massa, ciascuno per giunta con una sua specificità (giornalismo, radio, tv, cinema, teatro, fotografia, pubblicità ecc.), ma anche le arti e la letteratura; luoghi come la scuola, i musei storici, i monumenti e gli spazi urbani ecc.; e infine istituzioni formalizzate o no (associazioni culturali, partiti, gruppi religiosi, etnici e culturali ecc.) che con obiettivi più o meno dichiaratamente partigiani si impegnano a promuovere una lettura del passato polemica nei confronti del senso comune storico-storiografico, a partire dalla memoria del gruppo rispettivo. Infine, larga parte nelle manifestazioni più visibili e discusse dell’uso pubblico della Storia e particolari responsabilità nella sua degenerazione hanno i politici” (L’uso pubblico della Storia, FrancoAngeli, 1995).
Storiografia e uso pubblico della Storia
Le procedure conoscitive e le problematiche della storiografia differiscono nettamente da quelle che caratterizzano l’uso pubblico della Storia.
La storiografia, ovvero la Storia degli storici di professione, fa del passato un oggetto di conoscenza e nel ricostruirlo a fini conoscitivi è vincolata a proprie regole che ne costituiscano la garanzia di autonomia e credibilità; prende le distanze dall’oggetto indagato e tiene sotto controllo pregiudizi e predilezioni.
Invece, la Storia nel suo uso pubblico:
– persegue intenti pedagogici più o meno espliciti (costruire consenso, veicolare valori ritenuti decisivi nel presente…)
– ha finalità ludiche (Storia come oggetto di consumo e bene redditizio)
– coinvolge direttamente memoria, identità individuali e collettive
– seleziona temi e fonti sulla base di priorità politiche o ideologiche o di mercato, in ogni caso estrinseche rispetto alla logica della ricerca storica deputata.
La Storia degli storici di professione è dunque altra cosa da quella dei romanzi, della radio, delle trasmissioni televisive, dei film, del web, dei fumetti, dei giornali e anche da quella della scuola o delle commemorazioni ufficiali, dei musei storici, dei monumenti… che ‘istituzionalizzano’ alcuni risultati storiografici ritenuti essenziali per rafforzare l’identità collettiva facendoli diventare ‘memoria pubblica’.
Storici e comunicazione
Ma allora, vi può essere solo netta opposizione fra storiografia e uso pubblico della Storia? La maggior parte degli storici oppone nettamente le manifestazioni di uso strumentale della Storia all’attività di ricerca scientifica e denuncia la vocazione falsificatrice, manipolatoria o consumistica dell’uso pubblico della Storia. Altri, come Gallerano, ritengono che il rapporto fra la storiografia e l’universo della comunicazione storica sia più complicato; che non sia sufficiente da parte degli storici di mestiere segnalare errori e distorsioni; che sia improduttivo manifestare solo una netta e rigida contrapposizione. Scrive Gallerano a tal proposito: “l’uso pubblico della Storia può essere una forma di manipolazione che stabilisce analogie fuorvianti e appiattisce sul presente profondità e complessità del passato.” Spesso si riduce a banale intrattenimento consumistico, troppo semplificante e spettacolarizzante. Tuttavia “ci sono anche nei mass media e altrove manifestazioni dell’uso pubblico della Storia non così intenzionalmente mirate …; e ci sono infine usi del passato che coinvolgono direttamente memoria, identità individuali e collettive” e che possono avere potenzialità positive (arricchire la coscienza storica degli spettatori o far uscire alcuni temi e problemi dai ristretti ambiti degli esperti e farne un terreno di dibattito e confronto, ‘democratizzare’ dunque la Storia …). Inoltre, va considerato che, oggi, dall’uso pubblico della Storia in molti casi non si può prescindere perché coinvolge la gran parte delle agenzie culturali che operano nella nostra società (musei, scuola, media, gli stessi storici quando fanno opera di divulgazione attraverso i media).
Nella nostra società globalizzata insomma, fuori dai libri di Storia degli storici di professione c’è molta Storia e questo ricchissimo flusso di comunicazioni dirette o indirette sul passato, diversamente dai testi storiografici che non raggiungono un vasto pubblico, raggiunge e fa presa su un pubblico vastissimo, plasmando in profondità convinzioni, mentalità, visioni del passato. Il che mette in gioco la responsabilità sociale degli storici di professione, la cui presenza nel dibattito pubblico può giocare un ruolo importante nella costruzione della visione del passato e del mondo di tutti noi cittadini.
Il XX secolo
Il concetto di uso pubblico della Storia è relativamente recente, ma l’uso pubblico della Storia non è certamente un fenomeno dei nostri giorni. Scrive Gallerano che “se ripercorriamo la Storia della storiografia occidentale, Storia e uso pubblico della Storia non sono alla lettera distinguibili fino a tempi recenti: sono la stessa cosa. […] L’utilità pubblica della Storia è la sua giustificazione originaria, in quanto attività che regola e definisce i rapporti tra memoria e oblio, tra ciò che è degno e ciò che non è degno di essere ricordato […]; e nella definizione di tali rapporti il peso dominante è affidato alla tutela della comunità, in altre parole alla politica”.
Se gli storici sono stati coinvolti da sempre nella gestione del potere politico, l’uso pubblico della Storia nelle sue caratteristiche attuali è collocabile al punto di svolta degli anni Venti e Trenta del Novecento, quando i mezzi di comunicazione di massa cominciano a essere diffusi e incisivi. Da allora, l’uso pubblico della Storia diventa un campo sempre più vasto e variegato in cui operano sempre più soggetti (giornalisti, romanzieri, registi, pubblicitari, politici, associazioni culturali e politiche, aziende e altri soggetti economici). Da allora assume caratteri peculiari “trasformando il passato in un’arena dei conflitti politici del presente e non negandosi alcun settore della comunicazione”.
Rispetto agli anni Venti del Novecento, oggi si sono modificate le caratteristiche di molti “agenti di Storia” e soprattutto si sono trasformati i reciproci rapporti di forza: il sapere storico che circola oggi nella nostra società è sempre meno veicolato dagli storici di professione ed è sempre più appannaggio dei media e del mercato.
È possibile dalla ricerca storica raggiungere la ‘verità’?
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la grande illusione della storiografia è stata quella di credere di poter ricostruire gli avvenimenti del passato “così com’è veramente stato”, secondo la formula canonica di Leopold von Ranke. Oggi, prevale una visione della Storia più critica e più complessa che, pur considerando suo compito fondamentale la ricerca della ‘verità’, ritiene quest’ultima irraggiungibile nella sua perfezione. Scrive Marc Bloch che “la conoscenza del passato è una cosa in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente”. Le verità della Storia sono relative e parziali, se non altro perché suscettibili di revisioni storiografiche che appartengono al normale lavoro dello storico.
Le revisioni storiografiche possono essere connesse alla scoperta di nuove fonti o all’esplorazione di nuovi archivi o all’acquisizione di nuove testimonianze o possono derivare da un cambiamento di paradigma interpretativo o dall’acquisizione di fonti prima ignorate. La storia delle donne, ad esempio, ha rappresentato un mutamento dell’approccio, dei soggetti, dei temi e delle fonti nel modo di fare Storia. Altre revisioni derivano poi dal fatto che la Storia si scrive sempre al presente, nel senso che è il presente che orienta le domande che vengono poste al passato così che, ad esempio, la lettura della Rivoluzione francese è “romantica” in Michelet, marxista in Soboul e liberale in Furet.
Tutte queste revisioni sono inevitabili, necessarie e legittime, anzi feconde, perché gettano nuova luce sul passato. Diverso è il cosiddetto revisionismo, che mette in discussione acquisizioni storiografiche e reinterpreta il passato con intenti politici e ideologici e che si iscrive, dunque, nell’uso pubblico della Storia.
Revisioni storiografiche e revisionismo
In storiografia, il revisionismo riguarda perlopiù momenti della Storia moderna e ancor più spesso contemporanea che sono o sono sentiti fondanti le identità nazionali o collettive odierne (la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa, il nazismo…) e la cui rilettura riguarda il nostro modo di vedere il mondo nel quale viviamo. Non a caso, le riletture revisioniste si accentuano in momenti di grande trasformazione che mettono in discussione identità e senso di appartenenza, come è avvenuto nei paesi ex comunisti nell’ultimo decennio del secolo XX, dopo il crollo dell’URSS. In Italia, gli anni Novanta del Novecento, che coincidono anche con la crisi della cosiddetta prima Repubblica, sono segnati da riletture revisioniste del Risorgimento, del Fascismo, della Resistenza, dei Ragazzi di Salò, della Costituzione. L’esempio classico di quest’ultimo tipo di revisione è quello dello Historikerstreit, la durissima polemica scatenata dall’articolo di Ernst Nolte e che, come si è scritto, coinvolge Habermas.
In un articolo del quotidiano tedesco Frankfurtter Allgemeine (6 giugno 1986) Nolte presenta i crimini nazisti come la copia di un modello di sterminio e di violenza “asiatici” introdotta dal bolscevismo nel 1917. Sarebbe stata dunque la minaccia di essere annientati da quel modello a spingere la Germania di Hitler a reagire con la stessa illimitata violenza e ferocia, coniugata con l’immensa razionalità scientifica e tecnica tedesca.
Comparando i crimini nazisti con quelli stalinisti o di altri regimi, Nolte propone una nuova narrazione dei fatti storici alla luce di esigenze ideologiche e preoccupazioni politiche legate al presente (far uscire i tedeschi dal “passato che non vuole passare”, ovvero dalla sindrome di colpa collettiva per appartenere al paese che con la Shoah ha creato il “male assoluto”) più che a una rilettura profonda degli eventi storici; trasforma precedenti storici non tedeschi (genocidi o deportazioni e fucilazioni di massa) in cause; opera uno spostamento di responsabilità; esce in definitiva dalla ricerca storica scientifica per entrare nell’uso pubblico della Storia.
Il paragrafo “Storici e comunicazione” pone il problema della presenza degli storici di professione nel dibattito pubblico. Il testo descrive due aspetti opposti dell’ “uso pubblico della storia”: individuateli e riassumeteli.
“Il XX secolo”. L’uso pubblico della storia è una costante delle società umane nel tempo, Ma dagli anni Venti/Trenta del XX secolo il fenomeno acquista caratteri e rilevanza specifici: quali caratteri e quale rilevanza ? un secolo fa e oggi.